La solitudine vista da dentro
Se è vero che raccontarsi è la via maestra per la guarigione allora tanto vale che io provi a raccontare cosa si prova a sentirsi sempre e comunque soli.
Perché mi sento così solo? Ma soprattutto: perché mi sento solo anche se sto in mezzo agli altri?
Mi pongo queste domande da sempre. Ovviamente più passano gli anni più si fanno raffinate, colte e dense di riferimenti letterari.
Perché un universo a metà strada tra il deterministico e il casuale ha portato questo insignificante agglomerato di atomi nel vasto cosmo che sono io ad essere fatto di un mix fra una forte predisposizione genetica alla sofferenza emotiva e una sequela di esperienze formative (legate alle figure di attaccamento, al contesto socio-economico e alle mie risposte ad essi) che hanno esacerbato tale predisposizione, portandomi a provare costantemente quel senso di alienazione, disperazione e isolamento che tanto bene hanno descritto gli esistenzialisti?
Ma i tanti e inutili dettagli non cambiano la domanda al centro di tutto: perché mi sento così solo anche quando sono in mezzo agli altri?
Se avessi la risposta a questa domanda ovviamente non sarei qui a parlarne, ma sarei lì fuori a spassarmela immerso in quella vita sociale felice che ho sempre agognato ma che di fatto non sono mai riuscito a ottenere. Ma anche se non ho la risposta forse posso provare a raccontarmi, in quanto ho sempre creduto che il racconto sia la via maestra che può portare a galla le ampie sfumature dell’inconoscibile.
Il camaleonte
Dacché ne ho memoria sono sempre stato un essere umano (bambino-adolescente-giovane-adulto) estroverso e “carismatico”1. Socializzare di fatto non mi è mai risultato tanto difficile, e salvo in alcune fasi cupe della mia vita a quanto mi è stato detto anche risultare simpatico e ben voluto non ha richiesto grandi sforzi. Tanto che dai 16 ai 18 anni sono stato addirittura considerato un ragazzo popolare nella mia tribù allargata a Roma e che tutt’ora la gente che vuole ferire il mio orgoglio da wannabe intellettuale decadente mi definisce un (micro)influencer2.
Se mi guardo dall’esterno in varie fasi della mia vita riesco in effetti sempre a vedermi come socialmente più o meno competente. A volte troppo vistosamente provocatore e esuberante, o tematicamente un po’ pesante nei discorsi, o carente in delicatezza in certe situazioni. Non perfetto dunque - e questo è chiaro per chiunque - ma di rado mi è capitato di inserirmi in un ambiente sociale e provare fatica nel rendermi rapidamente visibile.
Questa capacità di adattamento ai diversi contesti sociali ce l’ho istintivamente. Inizio a frequentare un certo giro di persone, capisco qual è il modo giusto di comportarsi e di parlare al suo interno per inserirsi, indosso una maschera che non sia falsa ma che comunque pieghi la mia persona alla necessità del momento e bang! - in pochi mesi entro nel club di quelli-che-più-o-meno-stanno-al-centro-della-rete-sociale. Non dalla volontà di risultare autentico è guidato questo istinto, dunque, ma da un’innata abilità al calcolo e al camaleontismo.
Quando sono nella fase calcolo e camaleontismo il senso di isolamento di cui sto cercando di parlare non emerge in maniera diretta, ma ora che sto cercando di essere spietatamente onesto con me stesso mi rendo conto che anche in quei momenti è stato sempre lì latente, come un leone (che sarei io) pronta a mordere la preda (che sarei sempre io)3. Tutto ciò già ci dimostra quanto alcune parti di me si oppongano a quello che so esser il mio4 bisogno profondo di instaurare rapporti umani autentici, di sentirmi visto e amato per quello che sono, rispondendo a tale bisogno con la strategia subottimale di vendermi.
La reale funzione del camaleonte
Ma perché mi vendo, dunque? Mi vendo perché sono convinto che, mostrandomi per quello che sono realmente, rivelerei al mondo la mia vera natura di stupido pezzo di merda. Un inutile, stupido pezzo di merda che se realmente visto non farebbe che far scaturire negli altri disprezzo, pietà, distacco, freddezza o tutta una lunga serie di altri aggettivi tremendi che la vocina interiore della mia mente usa.
Quindi, in sintesi: camaleontismo perché se mi mostrassi per quello che sono tutti mi odierebbero. Ma non si può tenere botta tanto a lungo vivendo nelle mezze verità, quindi cosa pensa bene di fare quella maledetta parte di me5 che non mi reputa degno dell’autentico affetto degli altri? Inizia a complottare per sabotarmi, spingendomi ingigantire ogni microscopica differenza che passa fra me e che mi sta attorno in quel momento. Non conta quante similitudini ci siano, quanto saldo io mi senta nel considerare il contesto sociale in cui mi sono inserito "quello giusto”.
Il complotto contro me stesso
Niente conta, in quel momento, al di fuori delle differenze, che questo sabotatore decide di farmi osservare costantemente al microscopio6: non c’è una totale sovrapposizione nei gusti letterari, cinematografici o musicali (quindi di che parliamo)? La visione politica è minimamente diversa (quindi inconciliabile e destinata allo scontro) o troppo uguale (quindi noiosa)? I ritmi giornalieri hanno una qualche insignificante differenza (come possiamo vederci nella vita reale)? Allora…
…rassegnati Luca, sei e sarai sempre diverso da tutti gli altri. Non c’è alcun motivo per continuare a frequentare questo gruppo di persone. Tanto vale che inizi a scavarti la fossa, provocando e accentuando sempre di più queste differenze ontologiche che ci sono fra te e gli altri. Dai, cazzo. Attaccali, fatti odiare e mettiti su quel piedistallo che ti spetta. Certo, perché in realtà sei superiore e sono loro gli inutili pezzi di merda, non te.
Falso. Sono sempre io, l’inutile pezzo di merda. E dopo aver provato il fugace brivido di sentirmi un tormentato ma superiore essere sensibile che vaga solitario su un mare di nebbia7 inizio a deprimermi fortemente. Non “deprimermi” nel senso di “ahah lol sono depresso”, ma nel senso di quella maleodorante melma nera che inizia a sgorgare dalle pareti cercando di farti affogare.
Ti ho fregato, figlio di puttana! Non sei diverso in quanto essere superiore. E no, non è così. Ci hai creduto, ma non è così. Sei diverso perché sei un depresso e un disadattato, che riesce a rapportarsi con gli altri esibendo per poche settimane un fascino superficiale, ma al cui fondo si nasconde un bambino giustamente ferito, che deve continuare a soffrire perché è così che ha deciso l’universo. Ora puoi smetterla di sentirti isolato perché superiore e puoi iniziare a sentirti isolato in quanto inferiore.
Mi piacciono le metafore mezze junghiane quindi ne userò una: dall’isolamento dell’alpinista in vetta passo all’isolamento del minatore di Moria, mantenendo lo stesso pattern - per qualche ragione provo il masochistico bisogno di sentirmi speciale e diverso, andando contro me stesso in ogni modo pur di soddisfarlo8.
La sconosciuta felicità
Riassumiamo
Faccio il camaleonte per inserirmi in un contesto sociale, perché se fossi me stesso tutti mi odierebbero
Non riesco a mantenere l’atteggiamento camaleontico per tanto tempo, quindi mi attacco a ogni differenza fra me e gli altri per iniziare a distanziarmi
Sulle prime vedo il distanziamento come sintomo di inconciliabile superiorità, ma quando realizzo cosa ho fatto (di nuovo) inizio a pensare che sia in realtà sinonimo di inconciliabile inferiorità
Gira che ti rigira finisco per isolarmi, soffrendo
In tutto questo percorso non c’è un singolo momento in cui io riesca a sentirmi realmente connesso a chi mi sta attorno, e di conseguenza non c’è un singolo momento in cui riesca a sentirmi realmente felice. Questo perché, come dicevo all’inizio e come credo possa emergere dal resto del racconto, di fondo provo un irresistibile bisogno di essere visto e di essere amato per quello che sono. Ma dato che credo anche che se fossi realmente visto non sarei affatto realmente amato allora accendo la miccia di questa caotica spirale auto-distruttiva, finendo per rinforzare il ciclo infinito di isolamento.
Se mi mettessi a enumerare ogni situazione in cui mi sono isolato per colpa di questo processo mi metterei a piangere, e di fronte a me c’è questo bel raggio di sole e non mi va di deluderlo con un’iniezione di grigio.
Ottimo, ma ora cosa ci facciamo con tutto questo racconto? Hai qualche lezione pratica da portarti a casa o hai solo voluto nuovamente dar retta a quella parte di te che vuole mostrarsi spiattellando in pubblico gli anfratti più oscuri e reconditi della tua mente? Perché lo sai bene, vero, che questo è il tuo ennesimo delirio narcisistico?
Grazie delle domande, ma non ho più tutta questa voglia di darti retta, vocina interiore che vuole sempre mettermi il bastone tra le ruote. Quindi ti rispondo dicendoti che non ho una risposta, non so cosa me ne farò praticamente di tutto ciò. Posso giusto intanto chiedere virtualmente scusa a tutte le persone da cui mi sono allontanato nella vita e che sicuramente non stanno leggendo questo articolo. Non vi odio, non vi ho mai odiati e spero che la mia sparizione non vi abbia fatto stare male: ho odiato me stesso ho dovuto affrontare grandi difficoltà emotive e voi siete stati esseri umani la cui sfortuna è stata quella di avere a che fare con un inutile pezzo di merda un altro fragilissimo essere umano che non riesce a non autodistruggersi con delle spigolosità su cui sta cercando di lavorare.
Ma soprattutto chiedo scusa a me stesso. So che questo gesto non risolverà d’un tratto la tormentosa relazione che io, me e il sottoscritto abbiamo, ma oggi mi sento lievemente più ottimista e compassionevole nei miei confronti del solito - quindi boh, magari questa breve narrazione sarà un altro passettino verso la tanto agognata riconciliazione. Chi lo sa.
Ecco a voi, signori della corte, il classico esempio di un tizio con l’autostima a zero che si descrive con un termine così arrogante.
Dio quanto odio questo termine. Chi cazzo voglio influenzare, io che a stento riesco a dare un senso alle mie giornate?
Dentro di te ci sono due lupi, bla bla bla.
E forse non soltanto mio.
Nota del curatore: il poeta-di-sto-cazzo utilizza in questa analogia la nebbia come simbolo per indicare gli altri, le cui differenze inconciliabili con lui testimoniano non i suoi problemi e la sua inettitudine, ma la sua natura di ubermensch incompreso.
Qualcuno ha detto Disturbo Narcisistico della Personalità di tipo fragile? Complimenti, sei giunto al nucleo di Luca Parodi.