No, quel personaggio non sei "letteralmente tu"
Breve guida a come affrontare la narrativa più cupa come strumento di crescita, e non come ennesima occasione per deresponsabilizzarsi.
C’è un meme molto diffuso, quello definito Literally Me Syndrome, che in realtà mi fa abbastanza ridere.
Il significato di questo meme è semplice: il solitario, malinconico e tormentato wojack con la sigaretta in bocca pensa a quanto questi tre antieroi solitari, malinconici e tormentati del cinema siano letteralmente come lui. Si identifica in loro, vede nelle loro storie un’accurata rappresentazione della sua vita. Nelle sue diramazioni più schizofreniche e nonsense questo meme continua a farmi ridere, ma sviscerandone un po’ più a fondo le radici mi sono reso conto di quanto in realtà si poggi su un’idea tossica di fruizione della narrativa.
La più nobile delle espressioni
Parto da una provocazione: la narrativa1 è la forma più alta di espressione umana, l’unica in grado di cogliere la sfumature del reale senza semplificare. Altre arti (come la pittura, la musica, la scultura, etc) sono limitate dal loro linguaggio, che si discosta troppo da quello quotidiano, mentre le scienze e la filosofia peccano di un eccesso di rigore, che ne limita le capacità espressive. La narrativa, d’altro canto, può fungere da raccordo tra molte forme espressive, mettendo in scena mediante l’azione e le dinamiche fra i personaggi molteplici lenti attraverso cui guardare la realtà.
Prendiamo Insterstellar2, ad esempio. I saggi scientifici sui buchi neri e sulla psicologia dell’isolamento non mancano, così come è pieno di raffinate teorie filosofiche sui paradossi temporali. La grandezza del film di Nolan sta nel mettere in comunicazione tutti questi temi senza banalizzarli, ma anzi sublimandoli nella loro complessità mediante il loro inserimento nello schema di una storia straordinaria. In 169 minuti ci viene mostrato, tra le altre cose:
Come l’amore tra Cooper e la figlia Murph sia in grado di resistere a tutti i paradossi spazio-temporali;
Come anche un eroe e un pioniere come il Dr. Mann possa soccombere sotto il peso dell’isolamento;
Come una scienza senza spirito di esplorazione non può che portare alla stagnazione.
E così via.
Il risultato è maggiore della somma delle parti, e ogni tassello occupa allo stesso tempo un posto specifico ed è in comunicazione con tutti gli altri tasselli.
Il problema del meme
È facile, dunque, comprendere quanto una forma espressiva così grandiosa possa toccarci, influenzarci e cambiarci. Immedesimarsi ed empatizzare con la storia o con un personaggio che sentiamo più o meno simile a noi è una delle componenti essenziali di questa grandiosità. L’errore del meme, a mio avviso, sta nel dare troppo peso al momento dell’immedesimazione e troppo poco peso al lavoro di rielaborazione che dovrebbe esserci in seguito ad essa.
La rappresentazione narrativa di un archetipo col quale ci sentiamo in intimità rischia di farci male se tale archetipo rappresenta un qualcosa di oscuro, immorale o indesiderabile. Ed è questo che sembra suggerire il meme
Lui è letteralmente come me. Un tormentato, un solitario, un depresso, un potenziale psicopatico, un reietto trattato male dalla società che potrebbe vendicarsi. Le sue turbe sono le stesse che vivo anch’io, e quando le vedo rappresentate all’esterno mi sento meno solo, mi ci identifico e mi deresponsabilizzo, evitando di lavorare per distanziarmi e per cambiare.
Travis Fickle, Arthur Fleck, BoJack Horseman, Holden Caulfield, Rodion Raskolnikov: i personaggi che vengono più spesso usati nelle varie versioni meme sono o malvagi e moralmente deprecabili o quantomeno poco integri, infelici e sofferenti. Per quanto i loro tormenti possano sembrarci simili ai nostri dovremmo superare la pigrizia di deresponsabilizzarci fermandoci all’identificazione ed impegnarci nell’utilizzare le loro storie come monito e come anti-guida.
In sintesi se non affianchiamo all’istintiva empatia un lavoro di contrasto, in cui la domanda non sia
In che modo lui è come me?
ma
In cosa lui non è come me? Come posso non essere come lui?
il rischio è quello di perdersi per strada e di intensificare le nostre sofferenze trovando un rifugio nell’identificazione. Riconoscere l’oscurità in se stessi non dev’essere l’ultimo passaggio del processo di crescita, ma il primo. Se dal riconoscimento non inizia un percorso di cambiamento si rimane bloccati nell’oscurità - e per esperienza personale posso dirvi che nessuno dovrebbe aver voglia di rimanere bloccato in quel luogo.
Un esempio personale
Ma dato che siamo in tema forse è più facile presentare questa idea con un racconto personale.
Nell’ultimo anno sono caduto lentamente in una spirale depressiva sempre più intensa, che è arrivata a un passo dall’inghiottirmi. Scoprire l’abissale differenza che passa tra la tristezza comune e quel buco nero di disperazione che succhia ogni speranza è stata l’esperienza più dura che io abbia mai dovuto attraversare.
La salvezza sta venendo anche da una lucina interiore dentro di me che mi vede come ancora degno di salvezza e che sta avendo la forza di consigliarmi alcuni piccoli pilastrini su cui poggiarmi: tra le altre cose la famiglia, la terapia e, ovviamente, la narrativa. Per seguire l’ultimo consiglio ho deciso di esplorare alcuni fra i più noti di quelli che definirei racconti della disperazione, opere che trattano la depressione, l’isolamento e i loro vari parenti stretti. Ma il mio scopo è stato sin da subito quello di tornare a stare bene, non quello di limitarmi a trovare dei compagni di bevute.
Pur emozionandomi di fronte alle similitudini che di volta in volta trovo con i vari personaggi sto cercando sempre di mantenere attivamente le distanze.
Come Esther Greenwood3 anch’io mi sento chiuso in una campana di vetro e schiacciato dalla vastità delle scelte, ma sto cercando di prendere l’impegno di permettere a degli spiragli di emergere dalla chiusura e di scegliere meno, magari, ma meglio. Come Arthur Fleck e Travis Bickle anch’io sento di essere stato in parte “vittima” di un mondo a cui il diverso non va a genio, ma senza puntare il dito e cosciente di quanto più forti siano le differenze che passano fra loro e me rispetto alle somiglianze. Come BoJack Horseman anch’io ho una voce interiore che mi dice spesso di essere solo un inutile pezzo di merda, ma a tale voce non voglio più dare retta, nutrendo invece sempre più quella flebile ma presente voce che prova affetto per me. E così via.
E in pratica?
Certo, dovevo aspettarmi questa domanda4. Una parte di me la disprezza, in quanto figlia di quella cultura del next step e del take home message in cui qualsiasi cosa dev’essere sintetizzata in 4/5 punti e in un paio di esercizi da fare sul proprio bullet journal. Ma una parte di me è felice che me stesso qualcuno me l’abbia posta, perché stavolta un paio di linee guida ci stanno davvero. Ed è molto semplice.
Distanziamento critico: la prima e più importante regola è mantenere un distanziamento critico dai personaggi e dalle loro storie. Anche se ci si può identificare con loro, è essenziale riconoscere le differenze tra la propria vita reale e la narrazione.
Identificazione come punto di partenza: invece di fermarsi all'identificazione, si devono usare le storie e i personaggi come un punto di partenza per un personale percorso di crescita e auto-analisi. E lo si può fare chiedendosi in che modo si differisca dal personaggio e come sia possibile evitare di seguire le sue orme negative.
Rielaborazione costruttiva: dopo aver riconosciuto e analizzato le similitudini, il passo successivo potrebbe essere quello di una rielaborazione costruttiva. Ciò significa utilizzare le storie come monito e come guida per ciò che non si vuole essere o diventare nella propria vita.
Focalizzazione sui messaggi positivi: cercare di individuare e focalizzarsi sui messaggi positivi e costruttivi all'interno delle narrazioni, anche quelle più oscure, cercando al loro interno esempi di resilienza, di forza di volontà, di accettazione e così via.
Applicazione nella vita reale: infine, è importante tentare di applicare queste lezioni nella propria vita. Ciò potrebbe significare prendere decisioni consapevoli, lavorare sul proprio sviluppo personale, o semplicemente avere una maggiore consapevolezza delle proprie azioni e dei propri pensieri.
Tutto ciò lo vedo più come un modello mentale che non come un esercizio o uno schema rigido. Non bisogna per forza mettersi lì a seguire i consigli di questa lista come se fossero i dieci comandamenti, ma tenerli a mente come dei principi generali.
Passeggiando nella vita sempre fianco a fianco con le profondità della narrativa e le sue complesse sfaccettature ho “scoperto”5 una roba importante: le storie che leggiamo, guardiamo e viviamo non sono semplici passatempi. Sono specchi che riflettono le nostre più intime paure, desideri e speranze. Ma dato che ho spesso e volentieri passeggiato in luoghi oscuri e pericolosi ho anche capito la narrativa non può essere solo un rifugio, ma un faro che può guidare il cammino verso la comprensione di sé.
Non dovremmo, dunque, fermarci al riconoscere l'oscurità in noi stessi attraverso i personaggi che ci affascinano, ma intraprendere un viaggio di crescita a partire da quella oscurità.
Nessuno è letteralmente noi al di fuori di noi stessi, e al posto di abbandonarci alle ombre dovremmo imparare a lasciare più spazio alla luce.
Qui la intendo in senso mediamente ampio, come racconto di storie complesse. Per come la intendo io include primariamente la letteratura, ma anche la drammaturgia e le varie forme di cinema.
Insieme a BoJack Horseman l’opera narrativa in grado di farmi versare il maggior numero di lacrime nella storia dei versamenti di lacrime
Protagonista del capolavoro di Sylvia Plath, “La campana di vetro”. Tra i più lucidi resoconti di una progressiva caduta nel vortice oscuro della depressione.
Che infatti mi sono posto da solo, ndr.
Originale, nevvero?